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Lezioni sulla disoccupazione? Sì, ma solo dalla Casa Bianca

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krueger

Di Federica Colli Vignarelli

Krueger che si fa un giro in Italia non capita tutti i giorni. E quando succede non si può non andare ad ascoltarlo, qualsiasi cosa dica. Perché? Perché non si tratta di Freddy, l’infanticida dell’horror Nightmare dalla maglia a righe e dalla manicure discutibile, bensì di Alan, oggi Bendheim Professor di Economia e Affari Pubblici a Princeton, ieri Chairman del CEA (Council of Economic Advisers) statunitense, nominato da Obama, e l’altroieri guida del Dipartimento del Lavoro americano sotto la legislatura Clinton. Uno qualsiasi insomma.

Con queste premesse ci si aspetterebbe di veder entrare in aula Gobbi la versione accademica del sergente maggiore Hartman in Full Metal Jacket. E invece a fare il suo ingresso è un tranquillo docente sulla cinquantina, il cui potente occhio ceruleo contrasta con il mood discreto e quasi reverenziale che mostra sin dall’incipit del suo discorso.

«I apologize for the number of slides I’m going to show you», preannuncia cordiale. Subito dopo, però, la cordialità esce di scena per lasciare spazio all’indubbiamente più gravoso oggetto del dibattito: The Scourge Of Long-Term Unemployment.

Scourge. In italiano, piaga. Un termine che, come riportato nella prima delle N slides che ci attendono, associato alla disoccupazione è utilizzato persino dai dizionari quale migliore rappresentazione di dramma e causa di afflizione, disagio, sofferenza.

Rispolvero mentalmente le mie labili conoscenze macroeconomiche fino a focalizzare l’immagine sbiadita di un grafico curvilineo in cui si associa la disoccupazione all’inflazione. Quasi a leggermi nella mente, Krueger apre il discorso distinguendo tale fenomeno in manifestazione di breve e di lungo termine. Ed eccola lì, che svetta: la curva di Phillips. Sebbene molto dibattuta e per lo più in disuso, ci mostra come nel lungo periodo venga meno il trade-off d’emergenza tramite cui la disoccupazione può essere ridotta se pagata a peso d’inflazione. A demolire questa già precaria liaison di lungo termine si aggiungono anche le aspettative, che, come affermato da Ben Bernanke ai tempi in cui presidiava la Fed, possono mantenere i prezzi stabili anche in caso di disoccupazione alle stelle.

A questo seguono decine di grafici, in cui il nostro ospite mostra con ben celato orgoglio la ripresa statunitense, che ha falciato il tasso di disoccupazione portandolo al 6.3%, dal 10% che aveva toccato durante la recente crisi «…despite» aggiunge «the more severe conditions compared to the ones of the great depression in 1929». Sintonizzandosi per la seconda volta sul mio inconscio, che a quel 10% non ha potuto che sorridere, Krueger mostra un’infografica che confronta l’appena menzionato tasso USA con la situazione europea. «Trust me when I say that I didn’t put Italy that high to make you see it better». E ci crediamo. Quel 48.6% di media purtroppo non è più un mistero. Così come le sue cause, per indagare le quali Krueger propone una serie di confronti tra USA e Italia che mettono a nudo molti dark side di una questione che oscura è già di per sé. Rimanendo sui Pink Floyd, quella cui assistiamo è la costruzione di un problematico muro politico-sociale in cui ogni (nostra) falla diventa un drammatico another brick in the wall.

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Ciò che si legge, allontanandosene quanto basta, è un sostanziale fallimento in termini di omogeneità del Paese. Se negli Stati Uniti la disoccupazione è distribuita piuttosto equamente nelle seppur molto diverse regioni, così come tra fasce d’età e d’istruzione, in base al sesso e attraverso i diversi settori industriali, in Italia un’unione come quella ai mondiali pare essere unica più che sporadica. Qualche dato? Il tasso della discordia registra un valore medio del 43.4% nelle regioni del nord, per raggiungere il 59.8% al sud. La disoccupazione femminile rileva un gap di quasi 20 punti percentuali, con il nordico 45.9%  che suona quasi esiguo rispetto al 62.6% del meridione. I giovani disoccupati made in Italy, quelli tra i 15 e i 24 anni, quelli che negli USA sono il 18.21% degli under25, toccano un 46.9% perfettamente in linea con le aspettative. In compenso, pochi ci battono quanto a tasso d’impiego degli over50. E nemmeno questo ci suona strano, purtroppo.

Ma Krueger è anche celebre per i suoi studi in merito agli aspetti più behavioral dell’economia. Questa deformazione fa sì che abbandoni per un attimo tassi e grafici per soffermarsi sulle conseguenze che la disoccupazione di lungo periodo ha sulla vita delle persone. «Unemployment changes people» è la lapidaria sentenza con cui esordisce. Da un lato chi assume, che discrimina chi è disoccupato da più tempo, lasciandosi contagiare dai colleghi recruiters al grido di “If you are not going to hire him, neither am I”. Dall’altro gli ex lavoratori, compromessi sotto diversi punti di vista: c’è chi si fa guidare dall’orgoglio e diventa picky, rifiutando categoricamente paghe inferiori al proprio salario di riserva, chi spende decine di ore a settimana alla disperata ricerca di un impiego qualsiasi, chi impazzisce modificando convulsamente il CV, chi si gode i sussidi e, infine, chi si arrende. Chi si scoraggia, perde fiducia in sé e nella possibilità che le cose cambino. Lascia la forza lavoro e tecnicamente anche la base su cui calcolare il numero di disoccupati.

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Risultato: si riduce il tasso senza che si riduca il problema.

Diversa è anche l’attitudine nel gestire la momentanea nullafacenza da parte di donne e uomini: le prime tendono a buttarsi in altre attività, prevalentemente domestico-familiari, si iscrivono a corsi di cucina, giardinaggio, taglio e cucito. Il sesso forte la prende un po’ più sul personale e sceglie di crogiolarsi nel proprio status quo consumando divano e telecomando. Non per questo, però, la disoccupazione femminile è da giudicare più tollerabile di quella maschile: la Professoressa Paola Profeta conduce un lungo intervento sull’argomento, che approfondisce con la rapida intervista strappatale a fine conferenza. «La disoccupazione femminile è una causa per la quale mi sto battendo da anni. Sono fermamente convinta che siano necessarie misure espressamente rivolte al problema. Un esempio? Cambiamento culturale in primis, e migliori infrastrutture al servizio di chi è anche madre. La mancanza di impiego femminile è costosa, in termini monetari ed esistenziali, sia per le dirette interessate che per le loro famiglie».

Anche l’ospite d’onore, prima di volare verso il successivo impegno accademico a Trento, si rende disponibile a toglierci qualche curiosità: «Ci spiega la curva del Grande Gatsby?» Sorride. «È il nome che ho dato ad una relazione cui sono pervenuti diversi studi anche prima di me. Mostra che l’ineguaglianza nella distribuzione della ricchezza va incrementandosi di generazione in generazione, enfatizzando le condizioni di agio (e disagio) di partenza dei rispettivi contesti sociali. La paura è che con il passare del tempo si possa fare sempre meno per contrastare questa tendenza».

E allora, cosa fare? In dirittura d’arrivo emerge una “to do list” tutta dedicata all’Europa, che rimarca l’importanza di politiche mirate, volte a ridurre i gap interni ad ogni Paese e tra i Paesi stessi. Fondamentali sono le misure in materia di educazione, formazione, reinserimento dei lavoratori e consulenza psicologica, così come il rilancio di alcuni settori: l’Italia, commenta Krueger, è stata per decenni leader in design e innovazione. Oggi il suo cavallo di battaglia, il settore manifatturiero, registra un tasso di unemployment che con un valore del 40% circa arriva a doppiare quello statunitense.

Le buone policies, del resto, vanno di pari passo con una buona politics: un’economia forte è ciò che impedisce alla disoccupazione di breve di trasformarsi in disoccupazione di lungo, con tutti gli irreversibili disagi che ne conseguono. «A differenza di altre “negative experiences” oggettivamente più gravi, infatti» continua Krueger «la perdita del lavoro tende ad avere effetti più duraturi sulla salute fisica e mentale delle persone, che difficilmente riescono a tornare ad un livello di soddisfazione paragonabile a quello precedente il licenziamento».

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Necessario sembrerebbe quindi un mix di spinta interiore e agevolazioni esterne, una combo micro e macroeconomica volta a migliorare la qualità della vita dell’individuo e della società tutta.

E chissà che, un giorno, il pronipote di Alan Krueger possa affermare davanti ad altrettanti Bocconiani: «People changed unemployment».

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