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Le sfumature del dolore

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Dolore sfumature

di Enrico Anedda Grimaldi

Se un albero cade nella foresta e nessuno lo sente, fa rumore?

Avevo 11 anni quando sono crollate le Torri Gemelle, e in quel pomeriggio di settembre ero seduto davanti al televisore mentre guardavo, senza capirlo appieno, il filmato delle nuvole di fuoco create dal primo aereo che si schiantava contro il grattacielo. Ero ancora seduto lì davanti, mentre trasmettevano in diretta le immagini del secondo aereo.
Da allora abbiamo visto centinaia di migliaia di morti tra i civili, immolati sull’altare della guerra preventiva al terrorismo e per la protezione del nostro mondo.

Ognuno di noi ha le proprie opinioni sull’11 Settembre, così come ognuno può e deve pensarla come vuole sull’Iraq, sulla Libia, sull’Ucraina o sui cereali per la colazione. E bisogna rispettare anche il diritto di reagire come si vuole agli attentati di Parigi. In questi giorni, mi ha colpito proprio la polemica relativa alla “classificazione” del nostro dolore: quelli che dicevano “Com’è possibile che l’opinione pubblica occidentale pianga le 129 vittime di Parigi, ma non si indigni allo stesso modo per le migliaia di morti di Boko Haram in Nigeria? O per il Libano. O per l’aereo russo in Egitto.”. Le vittime “occidentali” degli attentati terroristici sono circa il 2.6% del totale. Perché piangiamo così tanto questo piccolo numero, e la restante proporzione viene dimenticata in una sera? Perché la Nigeria, il Libano, l’aereo abbattuto nel Sinai sono fatti che ci sconvolgono certo, ma non ci coinvolgono.

Quando una persona viene uccisa in Nigeria, il nostro dolore è rivolto a qualcuno a cui è stato negato il diritto di vivere. Quando succede a Parigi, pensiamo che sarebbe potuto succedere a noi. Ed è esattamente questo lo scopo primario del terrorismo. Quest’ultimo attentato, per la sua violazione così profonda dei nostri spazi privati, ne è la prova provante. Parigi è il simbolo stesso della vita pura e piena. Parigi è stato totalmente imprevisto; e abbiamo paura, perché potevamo esserci noi, era davvero possibile. E mentre una cosa è avere paura di partire, tutt’altra è avere paura nella propria casa, nella propria inviolabile quotidianità.

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Ma allora, quanto deve essere vicina una tragedia per coinvolgerci, oltre che sconvolgerci?
Il dolore è un’emozione personale, che ci fa piangere se una persona a noi cara muore. A volte il dolore non è neanche per gli altri, ma per noi stessi. È paura. E più questa paura è vicina, possibile, più il dolore è grande. Non si tratta di dividere le morti in Serie A e Serie B, ma di andare oltre. Esistono infinite sfumature, ognuna di queste regolata dalla nostra identità e inscindibile da essa. Non serve a nulla vergognarcene, così come non ha senso giudicare le sofferenze degli altri.

Internet ha reso molto più facile condividere la propria empatia, e siamo arrivati al punto in cui per manifestarla non serve neanche più parlare: basta cambiare la proprio foto del profilo. È abbastanza? È reale? Non lo so. Non so se quando le nostre foto profilo torneranno quelle di sempre, con le nostre facce allegre e i nostri selfie seducenti, significherà che ci siamo dimenticati di Parigi. So solo che in queste situazioni è naturale cercare di reagire in qualche modo, perché abbiamo bisogno di sentirci uniti contro ciò che ci spaventa.

Ma il risultato di questa grande sofferenza non può essere una guerra, che sarebbe solo lo strumento illusorio per darci convinzioni in un momento di spaesamento totale. Probabilmente lo sforzo più grande arriva adesso: riuscire ad affrontare il nostro dolore e le nostre paure senza creare una spirale cieca di violenza.

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