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Migrazioni e immigrazione: sappiamo di che cosa parliamo?

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Immigrazione Aceti

Di Alessandra Aceti

La questione dell’immigrazione è stata negli ultimi anni ed è oggi una delle più dibattute sul piano istituzionale sia italiano sia europeo. Soprattutto, essa è percepita dalla popolazione in generale come una delle problematiche più calde del nostro tempo, su cui l’opinione pubblica discute ed inevitabilmente si divide.
Eppure, il fatto che si parli molto di una determinata cosa non presuppone che la si conosca a fondo e spesso ciò avviene senza che il politico, il giornalista, il cittadino ne abbia effettivamente cognizione di causa.
Sia in considerazione dell’indiscutibile attualità del fenomeno migratorio, sia per arginare l’altrettanto innegabile ignoranza sullo stesso (e sicuramente anche in ricordo della strage lampedusana del 3 ottobre 2013), lo scorso fine settimana, dal 2 al 4 ottobre, durante la nona edizione del festival giornalistico “Internazionale a Ferrara”, molti degli eventi e degli incontri sono stati focalizzati, appunto, sul tema “migrazioni”.

Particolarmente utile ad adottare un approccio corretto alla questione è stata la relazione tenuta da Annalisa Camilli, giornalista per l’Internazionale dal 2007, in una delle sale del castello estense.
Il suo obiettivo è stato da una parte quello di far capire come la redazione del giornale si impegni per fare un uso corretto e il meno possibile generalizzante dei principali termini legati al fenomeno, dall’altro utilizzare la spiegazione di determinate scelte redazionali per sfatare miti comuni e restituire agli ascoltatori una visione più oggettiva e soprattutto fedele alla realtà.

Per questioni di chiarezza, riassumerò in alcuni punti fondamentali quanto detto durante l’incontro.

  1. Il fenomeno migratorio non è un’emergenza: è strutturale. Definiamo emergenza un evento capace di travolgere e rompere l’equilibrio in modo brusco, violento e soprattutto inaspettato. Dato il puzzle mondiale in cui si incastrano i tasselli di crisi economiche, instabilità politiche e problematiche sociali, il fenomeno migratorio non può non essere preso in considerazione come naturale conseguenza di tutto ciò. Aggiunge, infatti, la Camilli: “Se vogliamo, l’impostazione del problema come emergenza è la fonte stessa del problema.” e possiamo leggere tra le righe una provocazione alle istituzioni che (più o meno volutamente) male affrontano il fenomeno, interpretando la sua natura come emergenza. Un primo passo, ad esempio, che dimostrerebbe una maggior presa di coscienza della situazione, sarebbe un uso più consapevole del diritto d’asilo europeo.
  2. In Italia non c’è un’invasione. Sono i dati a parlare: l’anno scorso nel nostro Paese sono arrivate 170.000 persone; di queste soltanto una minima parte hanno espresso richiesta d’asilo in Italia, mentre le altre hanno perseguito il loro viaggio diretti verso altri Paesi europei. Inoltre, considerando i migranti arrivati in Europa tra il 2008 e il settembre 2015 (senza sottrare al dato il numero di quelli che hanno poi raggiunto altri continenti!), essi rappresentano una percentuale pari allo 0,7% su tutta la popolazione europea.
  3. Bisogna distinguere tra scafisti e trafficanti (i cosiddetti smmugler). Molto spesso capita di sentire notizie circa l’arresto di uno o più trafficanti illegali di persone che erano alla guida dei barconi. In realtà, molti meno sanno che è difficile che uno smuggler si imbarchi con i migranti stessi mentre spesso capita che alcuni di questi ultimi siano disposti a guidare le imbarcazioni in cambio di fare il viaggio gratis. Coloro che vengono arrestati, dunque, sono in generale scafisti, che possono essere trafficanti ma anche semplici migranti. Nel secondo caso, tentare di spiegare la propria innocenza alle forze dell’ordine, in una lingua sconosciuta, non è certo quello che un uomo spererebbe al termine di una traversata marina disumana.
  4. Migranti, rifugiati, richiedenti asilo o profughi? “Il termine migrante è diventato un ombrello. È diventato uno strumento che aiuta a disumanizzare e prendere le distanze dalle persone di cui si parla” ha detto Al Jazeera.
    Ed è vero, il rischio è che la parola “migrante” diventi una minestrone caldo, bollente che nessuno vuole mangiare, che è sempre più facile rifiutare. Dopo il 2009, anno in cui è stato introdotto il reato di clandestinità in Italia, chiamare “migrante” un uomo straniero senza documenti, un clandestino dunque, significa in maniera sempre più automatica (e scorretta) definirlo un delinquente. Sembra, poi, che dire “400 migranti sono morti in mare” produca un effetto diverso rispetto a dire “400 uomini sono morti in mare”. Una reazione meno incisiva, un sentimento più distaccato.
    Eppure “migrante” deriva dal verbo latino “migro” ed indica in realtà semplicemente colui che si trasferisce. Eppure non definiamo migranti i cosiddetti “cervelli in fuga”, né i ragazzi italiani che frequentano l’università in altre città d’Italia. Eppure i migranti, i cervelli in fuga, gli universitari sono tutti uomini.
  1. Abbandonare la prospettiva nazionale per capire cosa significa per una persona il proprio progetto migratorio. È certamente giusto affrontare il problema da un punto di vista generale, mirato a trovare una soluzione al livello internazionale (anche se i “Paesi che dovrebbero accogliere” sarebbero imputabili di disorganizzazione dolosa). Queste grandi migrazioni, frutto di disequilibri internazionali, sono oggi attualità e presumibilmente domani saranno storia; tuttavia, oltre ad essere un fenomeno sociale ed economico di tale portata, sono anzitutto un “fenomeno umano”. Dietro i dati e le statistiche, dietro gli accordi internazionali e le disposizioni, dietro un’Europa che cerca come può di far quadrare i suoi conti ci sono innanzitutto storie di uomini e (in maniera sempre più numerosa negli ultimi anni) di donne, bambini e ragazzi non accompagnati. Ci sono storie di persone che hanno fatto una scelta, la scelta che in un modo o nell’altro (“Barca ou Barsakh”, “Barcellona o morte”) segnerà per sempre la loro vita. Sembra banale dirlo, ma è bene ricordarlo. Perché non si dimentichi.
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