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DELLA VERITÀ, DELL’AMORE O DELL’ASSASSINO: OGNI STORIA È UNA RICERCA. INTERVISTA CON ANTONIO MANZINI

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22851286_1654960707877076_1484581322_oDi Marta Macini.

“Avevo scritto un monologo, il monologo di uno psicopatico, e speravo di metterlo in scena prima o poi, ma me ne vergognavo. Un giorno, per caso, lo prese in mano uno scrittore: disse che era un romanzo.”

È così che ci si ritrova scrittori. Non per scelta, ma perché “capiti in una nuova situazione e ti accorgi di starci più comodo. Quindi ci rimani.” Lui, infatti, prima di essere scrittore è stato un attore che sognava di diventare sceneggiatore, ma i libri l’hanno cercato… e trovato.

Antonio Manzini è nato a Roma nel 1964, ed è diventato attore teatrale dopo anni di accademia di arte drammatica. Dal teatro è poi passato alla televisione, ma è stato nel mondo letterario che ha trovato la sua dimensione più vera. E questo è evidente, visto il successo dei suoi libri: primo nelle classifiche italiane, ha uno stuolo di fans affezionatissimi , e sia critica che pubblico lo identificano come il successore di Camilleri. Proprio a questo crocevia inizia il nostro dialogo.

Coraggiosa la scelta del genere giallo: primo, perché è uno dei più difficili da sviluppare; secondo, perché nel panorama italiano bisogna fare i conti con un gigante del calibro di Camilleri. A cosa è dovuta?

“In realtà, quando uno scrive un giallo, sta cercando di raccontare il proprio Paese: il giallo ti dà la possibilità di essere immediatamente dentro al problema sociale, perché l’avvenimento sporco (l’omicidio, la rapina), avviene nel tessuto connettivo sociale del Paese. Hai un personaggio addetto all’indagine in maniera oggettiva, e quello che stai facendo tu, in quanto scrittore, è esattamente lo stesso: stai cercando di capire qualcosa, quindi lo fai attraverso un personaggio, che è molto più semplice.

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Io credo che tutta la letteratura, in fondo, sia la ricerca di un assassino. Che poi si chiami amore, serenità, disperazione, vita… è sempre una ricerca. Il giallo non è altro che l’esempio più semplice ed immediato per capire cos’è una narrazione: il modo migliore per arrivare alla meta. Poi che ci arrivi o no è una scelta dell’autore. È comunque sempre la ricerca di qualcosa.”

A proposito di altri autori: anche lei è stato lettore, prima di diventare scrittore. Chi sono i narratori con cui è cresciuto?

“Casa mia è sempre stata piena di libri. Mio padre mi diceva: “Quando entri in una casa, soprattutto quando ti vuoi fidanzare con una ragazza, nota una cosa. Se ci sono i libri, va bene, cerca di costruire una storia d’amore; se non ce ne sono, una notte e via, non sprecare tempo.” A casa mia si leggevano sempre libri molto importanti, mio padre mi costringeva a leggere i classici (per fortuna). A me annoiavano, quindi io di nascosto leggevo, che ne so, Stephen King, Simenon, Brautigan, Matheson… Ho cominciato a scoprire la letteratura italiana in tarda età, avevo già trent’anni; prima di allora mi piaceva quasi esclusivamente quella americana, perché era fatta di immagini: io sono nato nel ’64, quindi sono la prima generazione che è cresciuta sulle immagini più che sulle parole. A me piacevano libri con le immagini molto forti, quelli pieni di parole stentavo a capirli. Volevo dei romanzi che mi assomigliassero.”

Ed ancora oggi si ispira a loro, ora che lo scrittore è lei.

“Molto, sì: da giovane mi piaceva la letteratura americana. Oggi non mi ispira nessuno. Ispirarsi, secondo me, lo devi fare da ragazzo, ed io son vecchio. I vecchi non si ispirano, i vecchi vanno avanti su quello che hanno capito.”

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La letteratura ha un forte impatto sulla società: per fare lo scrittore bisogna essere pronti ad assumersi grosse responsabilità. Cosa significa, per lei, essere scrittore oggi?

“Significa essere onesti. Significa non voler incidere direttamente sulle opinioni od entrare nei dibattiti politici. Secondo me lo scrittore deve stare molto lontano da tutto questo: deve scrivere racconti e romanzi, nient’altro. L’utilità del libro è sviluppare il senso critico del lettore, non serve a dare opinioni politiche. Lo scrittore deve fare lo scrittore: l’opinionista è un altro mestiere. Trovo una volgarizzazione dello scrivere l’andare in televisione a raccontare la propria esperienza e la propria idea. Lo scrittore scrive, si ferma lì, come il pittore dipinge. Non avrei mai voluto vedere Picasso in politica. Picasso, quello che voleva dire sulla guerra di Spagna, l’aveva già detto in Guernica, non c’era bisogno di aggiungere altro. Perché aggiungere parole inutili? Copiamo i grandi: io mi ispiro a Picasso; alla loro vita, a questi geni che ci hanno insegnato che la tua opera serve a far venire delle idee, delle crisi. La cosa più onesta da fare è questa.

Lo scopo finale è scrivere. Per fortuna c’è questa cosa meravigliosa che è la letteratura, che non ha bisogno di nulla, se non di sé stessa.”

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